L’autonomia e l’indipendenza della magistratura, di tutta la magistratura, rappresentano cardini invalicabili della tenuta democratica dello Stato: e da questo assunto non è immaginabile separarsi proprio a tutela delle libertà di tutti (e, soprattutto, dei più deboli) dagli abusi e dai soprusi di chi detiene, momentaneamente, il potere derivante dalla legittimazione del voto popolare.
È per questo che non si può tacere dinanzi alle evidenti intenzioni di limitarne in svariati modi il raggio d’azione, propagandandole come riforme di portata epocale.
In tal senso, spero non sfugga a nessuno che l’attenzione è quasi esclusivamente rivolta al settore penale, peraltro dimenticando, o comunque lasciando ai margini, l’importanza del settore civile e di quello amministrativo che, pure, tanto influiscono sul sistema Paese e sulle sue capacità di rendere giustizia.
Seguendo le inclinazioni ministeriali e, di conseguenza, limitando l’analisi alla sfera “penale”, fermo restando tutto quanto sopra ricordato, reputo necessario evidenziare che, al di là delle contingenze (oggi, a esempio, si parla a gran voce del tema “dossieraggio”), vi sono temi di civiltà che meritano, come minimo, un’attenzione pari a quella giustamente riservata alla tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.
Mi riferisco, in maniera diretta, alla tutela della dignità delle persone (articoli 2 e 3 della Costituzione, oltre che articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), di tutte le persone, compresi gli “indagati”, che non possono vedere calpestato il proprio “essere” sulla base di iniziative che, al limite, rappresentano solo il primo passo di un iter giudiziario che trova nel “giusto processo” (art. 111 Costituzione) la sede naturale di formazione della prova.
Il ricordare, seppure in pillole, questi principi, serve – o, almeno, può servire – a riflettere sugli eccessi scaturenti, soprattutto nelle indagini che coinvolgono un gran numero di soggetti, da un uso non filtrato o molto poco filtrato delle notizie che, inesorabilmente, finiscono sulla stampa (nonostante l’ossessione di “imbavagliarla”).
Il tema, infatti, non è limitare la pubblicazione degli atti (che, viceversa, è bene siano divulgati se riguardano persone che ricoprono un ruolo “pubblico”), bensì evitare, a monte, che circolino (il concetto di “circolazione” è ben più ampio di quello di “pubblicazione” di) notizie senza quei filtri che dovrebbero portare a distinguere sempre gli atti che rilevano ai fini indagativi da quelli del tutto irrilevanti.
Filtri che dovrebbero far capo certamente ai magistrati ma, prima ancora, alla polizia giudiziaria che non può cavarsela sostenendo che tutto quello che emerge nel corso delle indagini rappresenta, o può comunque rappresentare, elemento utile a definire il contesto, perché, così facendo, si continua a giustificare l’immissione nel fascicolo procedimentale di tutto, legittimandone la diffusione e la conseguente, inesorabile, pubblicazione. Anzi, quasi inducendo la pubblicazione di notizie che, processualmente irrilevanti, servono però a fomentare il desiderio di gossip che ancora pervade tanta parte della società.
Con il risultato di riempire, nell’immediato, le prime pagine dei giornali (mediamente, per 4 – 5 giorni) ma, contemporaneamente, distruggere, per lungo tempo se non addirittura per sempre, la reputazione di una persona.
Da questo punto di vista… articolo di Federico Maurizio D’Andrea. Disponibile completo disponibile su “Il Sole 24 Ore” del 20 Novembre 2024
Commento finale dell’autore…
La tutela della dignità, personale e sociale, deve essere salvaguardata, in primo luogo, per chi è estraneo alle indagini; in secondo luogo, la polizia giudiziaria, l’autorità giudiziaria e il mondo dei media non dovrebbero mai dimenticare che le persone, prima ancora di essere, e nonostante siano, indagate, sono innanzitutto persone e, tutte, innocenti fino a sentenza definitiva.
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